FLUXUS O DEL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE
a cura di Enrico Pedrini
Studio Leonardi - Unimedia - Genova 1988
in collaborazione con Centre Culturel Franco-Italien Galliera, Goethe Institut Genua, Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Genova
Catalogo con testi di Josef Gerighausen, Marie-Thèrese Michaud, Enrico Pedrini, Sandro Ricaldone, Carlo Romano, Lara Vinca Masini.
"Fluxus, il movimento artistico più radicale e sperimentale degli anni '60": così Harry Ruhé intitolava, una decina di anni or sono, la sua fondamentale ricognizione intorno alla vicenda di questo gruppo, di cui lo Studio Leonardi e l'Unimedia di Caterina Gualco, in collaborazione con il Centre Culturel Franco-Italien Galliera, il Goethe Institut Genua e l'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Genova hanno proposto un'ampia rassegna, la prima in Italia da molti anni, imperniata su mostre, performances ed incontri di studio.
L'antecedente più definito di Fluxus è rintracciabile nella ricerca musicale "aleatoria" di John Cage, dalle esperienze musicali condotte nel 1938 sul piano, "preparato" con l'inserimento di piccoli oggetti tra le corde, a "4'33", il brano silenzioso eseguito per la prima volta da David Tudor a Woodstock nel luglio 1952, all'evento multimediale realizzato nello stesso anno al Black Mountain College. Altro precedente significativo va considerata il "combine-painting" praticato da Robert Rauschenberg. Ma la storia "ufficiale" di Fluxus inizia nel 1961, quando il termine viene utilizzato per la prima volta da George Maciunas nell'invito per il ciclo di letture "Musica Antiqua et Nova" tenuto all AG Gallery di New York, i cui proventi dovevano finanziare una rivista cos' denominata.
E' sempre Maciunas ad organizzare - in quello stesso anno, ancora nel suo spazio newyorkese - una serie di performances di Maxfield, Ichiyanagi, Vanderbeek, Higgins, La Monte Young, Yoko Ono, Walter De Maria, tutti (o quasi tutti) frequentatori dei corsi che Cage aveva tenuto nei tardi anni '50 presso la New School of Social Research.
Altro evento importante, in questa prima fase, risulta la preparazione del volume "An Anthology", curato da La Monte Young e Jackson Mac Low e disegnato da Maciunas ("un'antologia di operazioni casuali, concept-art, anti-arte, indeterminazione, improvvisazione, lavoro non significante, disastri naturali, piani d'azione...") da cui risulta una sorta di "manifesto" frammentato della disposizione artistica del collettivo ed un'esemplificazione concreta delle sperimentazioni dei singoli, tra i quali figurano - oltre alla maggior parte di quanti già menzionati, personaggi come George Brecht, Henry Flynt, Ray Johnson, Nam June Paik, Emmett Williams.
La pubblicazione di "An Anthology" fu ritardata sino al 1963 dal viaggio frattanto intrapreso da Maciunas in Europa dove, nel 1962, inizia l'attività vera e propria del gruppo Fluxuz con i festivals di Copenhagen, Parigi (seguiti l'anno successivo da altri a DŸsseldorf, Amsterdam, L'Aja, Nizza) e gli incontri di artisti europei come Vostell, Beuys, Spoerri e Ben Vautier.
Riferire dell'operatività esplicata sotto la sigla Fluxus a partire da quegli anni (attraverso concerti, eventi di vario genere - fra cui "paper events", "food events", "sport events" - films, riviste come la celebre "CCC v Tre" di George Brecht, contestazioni - di cui fu oggetto, su iniziativa di Henry Flynt, Karlheinz Stockhausen, considerato esponente di una forma di imperialismo culturale - edizioni di oggetti note come "Fluxyearboxes" e "Fluxkits") sarebbe certamente troppo complesso. Vale la pena di soffermarsi, piuttosto, su alcuni caratteri intrinseci alle sue pratiche:
- il principio d'indeterminazione, anzitutto, da cui trae il titolo la manifestazione in argomento, da intendersi non tanto nella versione heisenberghiana, legata alla meccanica quantistica e comportante una visione probabilistica della causalità, evocata da Enrico Pedrini nel saggio pubblicato in catalogo, quanto nell'accostamento proposto da bachelard alla "psicologia del molteplice", in grado di cogliere il valore dell'accidentale, della varietà e del disordine che si presentano nella vita;
- l'elementarità dell'evento, che porta all'estremo (e qui di nuovo emerge l'influenza di Cage, profondamente segnato dal Buddhismo Zen) il concetto di "wabi", valorizzazione estetica della povertà di mezzi, ponendo in essere azioni quali, ad esempio, l'accensione e lo spegnimento di una lampadina;
- la spersonalizzazione dell'arte, che nel decretare l'esaurimento della sua configurazione mitico- individualistica, spogliandola di ogni aura, la reintroduce nel quotidiano e le conferisce un'agibilità di massa;
- l'intermedialità, propensione all'impiego ed alla commistione di tecniche espressive diverse, derivata dalla dissoluzione degli schemi della parcellizzazione paleo-industriale nella continuità e nella globalità introdotte dall'avvento dei media elettronici, anch'essi precocemente assunti nell'operare degli esponenti di Fluxus (in specie da Nam June Paik).
In questa modalità a-sistematica, che rigenera l'arte non attraverso una negazione eroica (come nel caso di Dada) ma avvalendosi delle pratiche "deboli" del gioco, della humour, dell'azzardo; che non riscatta l'oggetto d'uso immettendolo nell'ambito artistico ma traspone piuttosto quest'ultimo al livello del banale e della produzione di serie, si coglie - insieme alla "sparizione dell'avanguardia" come progetto forte, totalizzante, riscontrata da Carlo Romano in catalogo - il primo manifestarsi del paradigma del postmoderno (che, a sua volta, è tutt'altra cosa del pot pourri iperdecorativo propinatoci in anni recenti.
Non a caso asserzioni Fluxus come "l'arte è facile" e "tutto è arte" corrispondono alla tesi lyotardiana secondo cui l'opera d'arte "può essere letta in qualsiasi modo" né è mera coincidenza che Ihab Hassan abbia definito l'epoca postmoderna come età dell'indetermanenza (indeterminazione + immanenza), riassumendone le componenti in un elenco che fra l'altro contempla gioco/caso/ anarchia/silenzio/processo/ decostruzione/paratassi/combinazione/ironia.
Nelle sale dello Studio Leonardi sono stati raccolti lavori "classici" di Cage ("Not Wanting To Say Anything About Marcel", 1969, dedicato a Duchamp), di Giuseppe Chiari ("Gesti sul piano di G.C. e Frederic Rzewski", 1962), di George Brecht ("Climatisé en traversant", 1972), di Ben Vautier ("la signature manque", 1973), di Dick Higgins ("Man Heart's Mirror", 1977/87); all'Unimedia Caterina Gualco esponeva invece "Cathod's Garden" di Nam June Paik, vari strumenti automatici di Joe Jones, "Personaggi noci" di Bob Watts, da poco scomparso, una "Depressione endogena" di Wolf Vostell, "Destroyed Music" (un disco rotto) di Milan Knizak ed un cestino con "Pezzi di realtà" di Philip Corner.
In concomitanza con l'inaugurazione (12/10/1988) si è tenuta all’Unimedia una performance di Ben Vautier (una sorta di dimostrazione di concerti ed eventi Fluxus "storici"); il 29/10, allo Studio Leonardi si è svolta un'azione di Takako Saito (un dialogo con una pentola di riso che sobbolle, contrappuntato dalla fabbricazione e dal lancio di piccoli cubi di carta bianca); ancora il 22/11 Philip Corner all'Unimedia ha dato vita ad un concerto basato sul rumore prodotto dalla masticazione di carote e quindi ha suonato gong e campane; in chiusura, il 25/11, lo Studio Leonardi ha ospitato "Berlin Luxus", un lavoro "in spirito Fluxus" di Michael Busch, Frank Hentscher e Hans Werner Kroesinger, in collaborazione con Attilio Caffarena.
Il 10 novembre si è tenuto presso l'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università di Genova un incontro di studio introdotto da Franco Sborgi, con l'intervento di Gino Di Maggio nonché di Enrico Pedrini, Sandro Ricaldone, Carlo Romano, autori, con Lara Vinca Masini, Marie-Thérèse Michaud, Josef Gerighausen, degli interventi riportati nel catalogo pubblicato nell'occasione.
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