CARLO ROMANO
LO SPETTACOLO E I SUOI PRODIGI
Arcana 1975
Carlo Romano è una singolare figura di intellettuale eclettico e marginale, un “petite maitre obscure” che ha fatto del disadattamento un’estetica in cui convergono Huysman e la scapigliatura, il radicalismo e l’avanspettacolo, Fluxus e il Conte Mascetti, l’underground e il dandismo, il libertarismo americano e il Marchese de Sade, il blues e il trallalero, le droghe e i bignè. Una struggente idea della Liguria su tutto il resto. Penso di poter affermare che ha fatto dei libri la sua passione assoluta, con evidenti sconfinamenti in una vera e propria perversione cartacea (e oggi non solo cartacea). La libreria Il Sileno di Galleria Mazzini a Genova, alla quale si dedicò col fratello Mario, è stata un luogo di elezione per almeno un paio di generazioni di intellettuali (nonché di sbandati) genovesi e la sua biblioteca (oltre trentamila volumi che da poco hanno trovato sede presso la Fondazione De Ferrari) può essere forse considerata la sua più importante “opera” di artista (segreto). Oggi vive a Uscio, il paese da cui proviene la famiglia paterna, legge (onnivoramente, come sempre), scrive (è collaboratore delle pagine culturali del “Secolo XIX”) e cura un sito internet “La biblioteca dell’egoista” che è lo specchio fedele della varietà dei suoi interessi culturali.
Nel 1975 esce per Arcana “Lo spettacolo e i suoi prodigi”, come è nata l’idea?
Tanto per cominciare direi come “materialmente” è nato. Per farla breve andò così: ero amico di Gianni Emilio Simonetti, che all’epoca suggeriva all’Arcana, la casa editrice italiana più vicina all’ “area della controcultura”, molti dei titoli che pubblicava. Il titolare, Raimondo Biffi, della famiglia dello storico locale milanese, era un gran signore in tutti i sensi, attento al mondo giovanile e culturalmente spregiudicato. La casa editrice era costituita sostanzialmente da lui e da quella sorta di capace e curioso factotum, nonché preveggente bibliofilo, che fu Roberto Palazzi (fra l’altro di “formazione” genovese). Allorché si trattò di inaugurare una collana di album iconografici dove poter far entrare il libro di foto sulla “Beat generation” della Pivano, si pensò anche a me in virtù dei miei interessi (quali?). Detto questo, credo che Lo spettacolo e i suoi prodigi possa esser visto oggi come una testimonianza - e non ce ne sono molte per la verità – di presa di distanza (fino all’estraneità) della piega ideologica post-sessantottesca, quella “lunga”, all’italiana. In un certo milieu i libri di “immagini” erano per altro recepiti, nella migliore delle ipotesi, come frivoli passatempo, meglio se disponibili nella veste del Kitsch e del Revival. A me interessava far parlare immagini e testo in un’unica soluzione. In quel momento, tuttavia, proprio Revival era una parola assai in voga, e dunque si pensò, anziché ampliare la parte principale del libro, di aggiungerne una seconda che giustificasse l’inclusione della parola nel titolo. Mi parve un’inutile “ibridazione”, malgrado una certa coerenza si sia salvaguardata. Il libro, inoltre, suggeriva una sorta di immersione in molto di quel che costituiva la parte figurativa della vita corrente, in un singolare e amoralistico capovolgimento delle idee alla Debord. Per certi versi credo si possa azzardare che anticipasse ciò che anni dopo costituì il gran dibattito sul “postmoderno”, nella specie: “è stato detto tutto, non c’è più niente da dire se non attraverso dei collages di quel che si è già detto”. Se così fu, nonostante l’uso della seconda persona plurale, lo fu in modo assai privato e, rispetto a quel genere di nichilismo postmoderno, oso dire casomai che fu allegramente conflittuale.
Quali erano stati i libri - ma anche i film o i dischi - che ti avevano ispirato quel discorso e quell’atteggiamento culturale?
Cosa leggevo in quel periodo? Di tutto, come cerco di fare adesso, soltanto che a quel tempo riuscivo a seguire “piste” assai diversificate senza troppi sforzi. Mi interessavo, per esempio, di vari occultismi, simbolismi, misteriosofie, e misticismi, dal materiale più popolare a quello più raffinato. In quel periodo, per dirne una, la Adelphi proponeva le opere di René Guenon, ma io avevo già letto da tempo più dell’essenziale attraverso le edizioni della “Rivista di Studi Tradizionali” (e qualche materiale originale). Leggevo narrativa e poesia. Per dire di un romanzo accolto subito con fervore, fu in quel periodo che uscì la prima edizione italiana di Shining col titolo, se ricordo bene, di Una strana festa di morte (fu dopo il film di Kubrick che Bompiani decise di ristamparlo col titolo originale). Leggevo di storia, filosofia, estetica, arte, letteratura… Anche di vicende giudiziarie e storie criminali. Leggevo pure ogni sorta di libercolo divulgativo insieme ai libri cosiddetti “impegnati”. Era anche il periodo dei “maitre” francesi. Devo dire che portavo simpatia soprattutto nei confronti di Lyotard. Aggiungo tuttavia che a un certo punto (in coincidenza con la loro “moda”, presumo) non ne potevo proprio più. Era inoltre il periodo di Arcipelago Gulag e molti testi del passato di critica e condanna del sistema sovietico (come quelli di Ante Ciliga) mi erano già noti (acquisiti sulle bancarelle dell’usato dove erano comuni ma trascurati). Quanto al cinema va obbligatoriamente ricordato che c’era una scuola “ligure” di cinefili e critici ben distinta dalle scelte conformiste del tempo. Proprio verso la metà degli anni Settanta alcuni giovani (Bocci, Ghezzi, Giusti, Mora…) avevano allestito una rivistina assai significativa, “Il Falcone maltese”. I “pionieri” non stavano d’altra parte con le mani in mano: come dimenticare la nascita della Cineteca Griffith grazie allo sfortunato Angelo Humouda, o l’apertura, da lì a poco, di una sala di grande prestigio, Filmstory, grazie a Sandro Ambrogio? Ricordo con particolare tenerezza l’istantanea commemorazione, in un noto cinema parrocchiale, di nuovo artefice il gruppo di Ambrogio, dell’appena defunto John Ford. Amavo e amo John Ford ma, come si sa, una reputatissima scuola francese esitava a includerlo fra gli “auteurs”. Viceversa, “i genovesi” non avevano mai mancato di onorarlo. Uscivano film emozionanti… Dillinger di Milius, La conversazione di Coppola, La stangata di Roy Hill… L’ultimo buscadero di Peckinpah… Amici miei di Germi e Monicelli… Il cinema italiano stava tuttavia perdendo smalto ma uscivano ancora buoni horror e polizieschi… Per venire alla musica di quegli anni, devo ammettere che non mi stregava come quella di qualche anno prima. Mi ero ormai incarognito nella musica popolare ed etnica. Furono l’amico Alfredo e mio fratello (e poi l’esplosione del Punk) a “ravvedermi” e a riconciliarmi col rock and roll. Frequentavo con qualche circospezione anche poche gallerie d’arte. Soggiungo che i galleristi e gli artisti dell’epoca amavano confrontarsi con le idee, sembrava naturale (o doveroso) farlo. Con molti di loro era piacevole discutere.
Eravamo in pieni anni Settanta, per molti versi famigerati…
Senti, degli anni settanta se ne sono dette di cotte e di crude. Si parla sempre del loro tasso di violenza, ma lo si fa con una tale parcellizazione – con disinteresse per i fatti quotidiani, con nichilismo travestito da buon senso e con ipocrisia mista a ignoranza - che a un certo punto sembra essere significativa per valutarli soltanto la violenza che colpiva i politici e la classe dirigente in genere. Sono stati anche anni vivaci per molti aspetti. Per quel che mi riguarda, a Genova, un po’ per celia, insieme ad alcuni amici (Mignani, Passadore, Merella, Barbini, Bignone, poi Ricaldone, Zuccarino e tu stesso, ma anche altri che avevano la Libreria Sileno come punto di convergenza) si cercava di “far gruppo”. Nacquero così “Atelier Bizzarro”, “In Posa” e successivamente l’Ufficio di ricerche e documentazione sull’Immaginario (ma qui già sforiamo). A Milano, con amici che gravitavano intorno a Gianni Emilio Simonetti e a Gino di Maggio, si fecero cose di un certo peso, come “a-beta” (dalla quale derivò in qualche modo - anche se, per la verità, le cose vanno ben distinte - la più celebre e prestigiosa“Alfabeta”). Con Scheiwiller avevo pubblicato un originale libriccino su Mucha (purtroppo zeppo di refusi) e con Arcana un saggio sul travestitismo finito su un album al quale partecipò nientemeno che Gillo Dorfles. Mi si proponevano delle collaborazioni e, volendo, potevo trovare aperte diverse strade, tuttavia la marginalità non mi stava stretta ed ho finito per coltivarla. Se ho fatto qualcosa di buono probabilmente l’ho fatta conversando, pur non possedendo le qualità del conversatore geniale (e gli amici erano peggio di me, se si può dire). I miei umori dell’epoca credo di poterli in ogni caso rinvenire in un testo di qualche anno successivo pubblicato sul numero unico (un destino, non solo il mio, da “numeri unici”) di “Stato Inferto”, cui avevano lavorato soprattutto, credo, Zuccarino e Mignani. Rimpiango quello “stile”.
(intervista di Giuiliano Galletta a Carlo Romano in "Volti e risvolti", Sagep, Genova 2009)
Nessun commento:
Posta un commento