ALLAN KAPROW
JUST DOINGWorkshop
Museo d'Arte Contemporanea di Villa Croce
ottobre 1998
Allan Kaprow, il grande artista
statunitense, noto in tutto il mondo per avere creato, alla fine degli anni '50,
la forma espressiva dell'happening (su cui ha pubblicato anche testi
fondamentali come "Assemblages, Environments, Happenings" e "Essays on the
Blurring of Art and Life") è venuto a Genova per tenere un workshop intitolato
"Just doing / Soltanto fare", organizzato dal Museo d'Arte Contemporanea di
Villa Croce, dall'Istituto di Storia dell'Arte dell'Università e da Caterina
Gualco. Lo abbiamo intervistato nella galleria di quest'ultima mentre allestiva
una mostra che documenta diverse fasi della sua attività, dagli happenings,
appunto, ai giorni nostri.
Sono pochissimi gli artisti che hanno saputo aprire un nuovo campo d'azione, come Lei ha fatto con l'happening. Quali incontri, quali esperienze l'hanno indirizzata verso questa prospettiva?
Quando dall'Arizona, dove ho vissuto da bambino, mi sono spostato sull'East Coast ho incontrato diverse persone la cui influenza è stata fondamentale. Fra queste Hans Hofmann, con cui ho studiato pittura. Nel suo lavoro c'era un retroterra complesso, le strutture cubiste, il colore dei Fauves, il tutto su un fondo espressionista. Ma importanti erano per me soprattutto gli esercizi che proponeva, grazie ai quali si entrava nel congegno dell'opera, non si mostrava soltanto un risultato: "Guarda questo", "Ah fantastico", ma si imparava come raggiungerlo. In verità io però allora non volevo diventare pittore (lo sono stato poi, ma per poco).
Che cosa voleva fare, allora?
Volevo occuparmi professionalmente di filosofia. Negli anni '50 si viveva un momento molto vivace, caratterizzato da una radicale contrapposizione fra i sostenitori dell'esistenzialismo, una filosofia della persona, sorta in Europa, e i cultori della filosofia analitica, radicata nei paesi di lingua anglosassone: Stati Uniti, Inghilterra, Australia. I miei interessi si appuntavano sull'estetica. Mi aveva colpito in particolare un libro di John Dewey: "Arte come esperienza", che legava strettamente l'arte alle altre esperienze umane, alla vita quotidiana. E, più in generale, il suo pragmatismo "contestualista", che sottolineava la fluidità del significato, rapportandolo al contesto in cui una azione viene compiuta.
Ma anche se questo suo interesse per la filosofia l'ha influenzata profondamente, il suo lavoro si è poi concentrato sull'arte. Come mai?
Un mio insegnante di quell'epoca, Albert Hofstadter, mi disse che se volevo specializzarmi in estetica non potevo diventare uno dei soliti filosofi che dicono: "L'arte? Non ne so nulla". E mi mandò alla Columbia University, da Meyer Schapiro, un personaggio che sulla sua porta avrebbe potuto esporre un gran numero di titoli: "storico dell'arte", "ballerino", "pensatore" e via dicendo. Dell'arte sapeva assolutamente tutto, a partire dal medioevo, era un personaggio molto semplice e molto brillante che sapeva trasmettere una molteplicità di stimoli. Proprio in quel periodo ho cominciato ad esporre, ad insegnare, a pubblicare. Avevo pochissimo tempo da dedicare allo studio universitario. Così non portai a termine il dottorato.
Ha però frequentato poi altri corsi, di composizione musicale, ad esempio.
A farmi tornare in classe, una classe sui generis, fu John Cage, che già conoscevo, era un amico, ma il cui ruolo divenne per me importantissimo nel momento in cui cercavo la maniera di produrre dei suoni, o più esattamente dei rumori, per gli happenings ai quali nella seconda metà degli anni '50 stavo lavorando. Insegnavo in una Università, nel New Jersey, lui alla New York School, dove teneva un corso di composizione. Mi diede appuntamento lì, ebbi le notizie tecniche di cui avevo bisogno, ma soprattutto trovai una straordinaria fucina di idee. Con i suoi allievi analizzava le tematiche più attuali: controllo o non controllo, caso od organizzazione, musica o rumore... Ogni settimana tornavo, con il mio amico George Brecht, artista Fluxus, alle sue lezioni. Ma io non volevo fare della musica, volevo produrre dei rumori all'interno di un'azione reale. E' così che ho iniziato i miei happenings.
C'è stata, in questa sua scelta, anche un'influenza degli artisti dell'Action Painting, come Pollock, Kline, De Kooning?
C'era molta azione in questi artisti. Ma rimaneva un'azione legata alla pittura, all'immagine. I segni di Franz Kline, ad esempio, contengono una grande energia ma sono essenzialmente calligrafici e la calligrafia è immagine, è pittura. Io volevo l'azione, l'energia, separata dalla pittura. Harold Rosenberg, il critico più direttamente coinvolto nella vicenda dell'Action Painting, rideva di me, per questo. Diceva che la mia non era arte, non era nulla.
In effetti lo scarto rispetto all'esperienza pittorica, anche d'avanguardia, era netto.
L'happening è nato come una specie di collage multisensoriale. Come un'esperienza che coinvolgeva le diverse facoltà percettive: vista, udito, tatto… In precedenza avevo lavorato a composizioni realizzate con l'assemblaggio casuale di materiali diversi, che a poco a poco erano arrivati ad integrarsi in un insieme, a costituire un allestimento ambientale, un environment. Ma erano forme in qualche modo ancora statiche. Allora mi sono proposto di introdurre la dimensione temporale, di far partecipare la gente, di occupare nuovi spazi.
Così dalla galleria, dove si è svolto il suo primo lavoro ("18 happenings in 6 parts", 1959), è passato al campo di pallacanestro di "Coca cola, Shirley Cannonball" (1960), al cortile di "The Courtyard" (1962).
Precisamente. I primi happenings, tanto i miei, quanto quelli di altri artisti come Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Jim Dine, erano eventi complessi che si svolgevano in sedi non convenzionali e implicavano la partecipazione di molte persone. Poi, attorno alla metà degli anni '60, sono arrivato ad una chiarificazione concettuale. Osservavo il gioco dei bambini, in cui l'imitazione ha una funzione di esplorazione dei comportamenti. Ho iniziato a lavorare su azioni semplici, cose che non hanno senso al di là della loro immediatezza. O meglio, il loro senso è il gioco e l'obiettivo che si propongono è di ampliare il gioco. La complessità che prima era spiegata nella costruzione di un contesto a più dimensioni, ora è risolta nel tempo o nello spazio.
In che senso?
Ci sono azioni che si svolgono in luoghi diversi, a Berlino, Copenhagen, Los Angeles, formando una sorta di rete; altre che si sviluppano nel tempo per settimane, per mesi o per anni. Per esempio: raccolgo la polvere di casa mia in un sacchetto, chiamo un amico e gli dico: "Vuoi la mia polvere?". Se risponde sì la prende e la sparge per casa sua. Dopo un certo tempo la raccoglie e la passa ad un altro, che a sua volta la trasmetterà. E' un'azione tendenzialmente infinita che durerà sino a che qualcuno non si dimenticherà di raccogliere la polvere e di passarla.
E' questo che fa nei suoi workshops?
Nei miei laboratori propongo soprattutto esercizi che stimolano un'attività elementare, non finalizzata. Come stringersi la mano, spegnere un fiammifero con un soffio, osservare una nuvola. Gli artisti di oggi, i postmoderni, sono convinti che la storia sia finita, che l'arte sia finita, ridotta a clichés che si possono soltanto rimescolare, combinandoli in un modo o nell'altro. Invece la vita è ricchissima, fluida, imprevedibile proprio negli eventi più semplici. Non serve l'arte, basta l'attenzione.
Sandro Ricaldone
Sono pochissimi gli artisti che hanno saputo aprire un nuovo campo d'azione, come Lei ha fatto con l'happening. Quali incontri, quali esperienze l'hanno indirizzata verso questa prospettiva?
Quando dall'Arizona, dove ho vissuto da bambino, mi sono spostato sull'East Coast ho incontrato diverse persone la cui influenza è stata fondamentale. Fra queste Hans Hofmann, con cui ho studiato pittura. Nel suo lavoro c'era un retroterra complesso, le strutture cubiste, il colore dei Fauves, il tutto su un fondo espressionista. Ma importanti erano per me soprattutto gli esercizi che proponeva, grazie ai quali si entrava nel congegno dell'opera, non si mostrava soltanto un risultato: "Guarda questo", "Ah fantastico", ma si imparava come raggiungerlo. In verità io però allora non volevo diventare pittore (lo sono stato poi, ma per poco).
Che cosa voleva fare, allora?
Volevo occuparmi professionalmente di filosofia. Negli anni '50 si viveva un momento molto vivace, caratterizzato da una radicale contrapposizione fra i sostenitori dell'esistenzialismo, una filosofia della persona, sorta in Europa, e i cultori della filosofia analitica, radicata nei paesi di lingua anglosassone: Stati Uniti, Inghilterra, Australia. I miei interessi si appuntavano sull'estetica. Mi aveva colpito in particolare un libro di John Dewey: "Arte come esperienza", che legava strettamente l'arte alle altre esperienze umane, alla vita quotidiana. E, più in generale, il suo pragmatismo "contestualista", che sottolineava la fluidità del significato, rapportandolo al contesto in cui una azione viene compiuta.
Ma anche se questo suo interesse per la filosofia l'ha influenzata profondamente, il suo lavoro si è poi concentrato sull'arte. Come mai?
Un mio insegnante di quell'epoca, Albert Hofstadter, mi disse che se volevo specializzarmi in estetica non potevo diventare uno dei soliti filosofi che dicono: "L'arte? Non ne so nulla". E mi mandò alla Columbia University, da Meyer Schapiro, un personaggio che sulla sua porta avrebbe potuto esporre un gran numero di titoli: "storico dell'arte", "ballerino", "pensatore" e via dicendo. Dell'arte sapeva assolutamente tutto, a partire dal medioevo, era un personaggio molto semplice e molto brillante che sapeva trasmettere una molteplicità di stimoli. Proprio in quel periodo ho cominciato ad esporre, ad insegnare, a pubblicare. Avevo pochissimo tempo da dedicare allo studio universitario. Così non portai a termine il dottorato.
Ha però frequentato poi altri corsi, di composizione musicale, ad esempio.
A farmi tornare in classe, una classe sui generis, fu John Cage, che già conoscevo, era un amico, ma il cui ruolo divenne per me importantissimo nel momento in cui cercavo la maniera di produrre dei suoni, o più esattamente dei rumori, per gli happenings ai quali nella seconda metà degli anni '50 stavo lavorando. Insegnavo in una Università, nel New Jersey, lui alla New York School, dove teneva un corso di composizione. Mi diede appuntamento lì, ebbi le notizie tecniche di cui avevo bisogno, ma soprattutto trovai una straordinaria fucina di idee. Con i suoi allievi analizzava le tematiche più attuali: controllo o non controllo, caso od organizzazione, musica o rumore... Ogni settimana tornavo, con il mio amico George Brecht, artista Fluxus, alle sue lezioni. Ma io non volevo fare della musica, volevo produrre dei rumori all'interno di un'azione reale. E' così che ho iniziato i miei happenings.
C'è stata, in questa sua scelta, anche un'influenza degli artisti dell'Action Painting, come Pollock, Kline, De Kooning?
C'era molta azione in questi artisti. Ma rimaneva un'azione legata alla pittura, all'immagine. I segni di Franz Kline, ad esempio, contengono una grande energia ma sono essenzialmente calligrafici e la calligrafia è immagine, è pittura. Io volevo l'azione, l'energia, separata dalla pittura. Harold Rosenberg, il critico più direttamente coinvolto nella vicenda dell'Action Painting, rideva di me, per questo. Diceva che la mia non era arte, non era nulla.
In effetti lo scarto rispetto all'esperienza pittorica, anche d'avanguardia, era netto.
L'happening è nato come una specie di collage multisensoriale. Come un'esperienza che coinvolgeva le diverse facoltà percettive: vista, udito, tatto… In precedenza avevo lavorato a composizioni realizzate con l'assemblaggio casuale di materiali diversi, che a poco a poco erano arrivati ad integrarsi in un insieme, a costituire un allestimento ambientale, un environment. Ma erano forme in qualche modo ancora statiche. Allora mi sono proposto di introdurre la dimensione temporale, di far partecipare la gente, di occupare nuovi spazi.
Così dalla galleria, dove si è svolto il suo primo lavoro ("18 happenings in 6 parts", 1959), è passato al campo di pallacanestro di "Coca cola, Shirley Cannonball" (1960), al cortile di "The Courtyard" (1962).
Precisamente. I primi happenings, tanto i miei, quanto quelli di altri artisti come Robert Rauschenberg, Claes Oldenburg, Jim Dine, erano eventi complessi che si svolgevano in sedi non convenzionali e implicavano la partecipazione di molte persone. Poi, attorno alla metà degli anni '60, sono arrivato ad una chiarificazione concettuale. Osservavo il gioco dei bambini, in cui l'imitazione ha una funzione di esplorazione dei comportamenti. Ho iniziato a lavorare su azioni semplici, cose che non hanno senso al di là della loro immediatezza. O meglio, il loro senso è il gioco e l'obiettivo che si propongono è di ampliare il gioco. La complessità che prima era spiegata nella costruzione di un contesto a più dimensioni, ora è risolta nel tempo o nello spazio.
In che senso?
Ci sono azioni che si svolgono in luoghi diversi, a Berlino, Copenhagen, Los Angeles, formando una sorta di rete; altre che si sviluppano nel tempo per settimane, per mesi o per anni. Per esempio: raccolgo la polvere di casa mia in un sacchetto, chiamo un amico e gli dico: "Vuoi la mia polvere?". Se risponde sì la prende e la sparge per casa sua. Dopo un certo tempo la raccoglie e la passa ad un altro, che a sua volta la trasmetterà. E' un'azione tendenzialmente infinita che durerà sino a che qualcuno non si dimenticherà di raccogliere la polvere e di passarla.
E' questo che fa nei suoi workshops?
Nei miei laboratori propongo soprattutto esercizi che stimolano un'attività elementare, non finalizzata. Come stringersi la mano, spegnere un fiammifero con un soffio, osservare una nuvola. Gli artisti di oggi, i postmoderni, sono convinti che la storia sia finita, che l'arte sia finita, ridotta a clichés che si possono soltanto rimescolare, combinandoli in un modo o nell'altro. Invece la vita è ricchissima, fluida, imprevedibile proprio negli eventi più semplici. Non serve l'arte, basta l'attenzione.
Sandro Ricaldone
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